Nel libro VIII dell’Odissea di Omero, l’eroe dal multiforme ingegno, il distruttore di rocche, il conoscitore degli uomini, la mente astuta mostra per intero la sua umanità come mai prima ha fatto e forse come mai dopo farà. Alla voce di Demodoco che, invitato da Alcinoo, canta le gesta dell’eroe e la sua contesa con Achille figlio di Peleo, Odisseo “afferrato con le mani gagliarde il grande mantello scarlatto, lo tirò sulla testa e si nascose il bel viso: aveva ritegno a versare lacrime di sotto i cigli davanti ai Feaci”.
 
Non so quanto questi pochi versi abbiano contribuito a costruire nel cuore dei lettori di ogni epoca una ulteriore mitologia di Odisseo capace di stare al passo con quell’altra, quella dell’eroe astuto ideatore del cavallo. O con quella del viaggiatore inesausto, conoscitore del cuore degli uomini e delle città. O dell’uomo capace di far innamorare fanciulle e dee. Eppure nessun personaggio letterario è stato capace di percorrere, come Odisseo, i secoli della sua esistenza affrontando, stimolando, obbligando quasi, continue metamorfosi di sé.
 
Fatto sta che difficilmente possono mettersi insieme l’esperienza del viaggio e la contemplazione del vasto mare senza pensare all’eroe greco. Il merito delle sue innumerevoli metamorfosi e della sua presenza mai interrotta nel nostro immaginario è senz’altro di Omero e della felice scelta di quell’epiteto, politropo, con il quale designa da subito il suo personaggio. Che, beninteso, era già di suo un eroe la cui fama volava di bocca in bocca prima che il grande poeta la fermasse nel suo libro.
 
Ogni lettore di ogni epoca ha preso sul serio quell’aggettivo, politropo, e ha da subito compreso quanta libertà poteva dargli per piegare quell’eroe ai desideri della propria immaginazione.
Per cui Odisseo che – con una intimità che la dice lunga sul rapporto che abbiamo con lui – spesso chiamiamo Ulisse, non ha avuto mai alcuna difficoltà a incarnare un ampio spettro di possibilità di agire riservate all’uomo. È politropo, e dunque è forte, è astuto, è affascinante, è malinconico. È incurante dell’ira divina. È timoroso degli ordini degli dei (mi raccomando, non toccate i buoi sacri a Iperione). È malandrino al punto da infischiarsene dei loro divieti. E quindi le Colonne d’Ercole vanno superate, eccome. Così, almeno, lo sente dentro di sé Dante e ce lo racconta ancora indomito, pur se vecchio e tardo, e arso dalla sete di conoscenza.
 
Abile oratore lo era sempre stato, lo sapeva Dante e lo sappiamo noi, per cui quella sua celeberrima esortazione “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, non ci stupisce più di tanto. Ma l’abbiamo amata e l’amiamo tanto da averla fatta diventare una citazione a cui di tanto in tanto pure noi ricorriamo quando abbiamo voglia di rimarcare la necessità e l’utilità del sapere. E lo facciamo incuranti della sorte che l’Ulisse dantesco ha riservato a sé stesso e ai suoi compagni.
 
Ma alla fine, che importa. Al sentirgli raccontare che “dei remi facemmo ali al folle volo”, restiamo ancora incantati. E davanti agli occhi ci scorrono le immagini di quest’altra meravigliosa metamorfosi. Perché davvero ci piace vedere i remi trasformati in ali e vincere qualunque resistenza per andare verso l’ignoto che sempre ci terrorizza e sempre ci affascina.
 
E, ci domandiamo, chissà che cosa ha visto, sprofondato nel mare che ha il colore del vino. Quali e quante altre frontiere ha incrociato e superato. Di quanti altri uomini ha conosciuto il cuore e di quante altre città ha visto o distrutto le mura.
 
Del resto, che il viaggio di Ulisse rappresenti in ogni epoca il viaggio degli umani che si incontrano e che si scontrano con altri umani, è storia che è dentro ognuno di noi. E che ha ampie possibilità di aiutarci a comprendere il senso del nostro venire a contatto, in questo vasto mondo, con quelli che semplicemente chiamiamo “gli altri”. Qualcosa ce la racconta François Hartog nel suo Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia. Con l’avvertenza che Ulisse, l’uomo-frontiera, è davanti a tutti. È avanguardia per chi verrà dopo, tutti quelli che viaggiando si interrogano sulla propria identità e su quella degli altri popoli che incrociano. Hartog si concentra sull’antica Grecia; ma chi non vede che quella è l’esperienza che anche noi viviamo qui e adesso?
 
Odisseo politropo è quindi anche ubiquo. Nel tempo e nello spazio. E forse per questo nel corso dei secoli è diventato un personaggio che amiamo seguire nei suoi lunghi viaggi. Capita quindi che molti vengano non solo affascinati dalle sue avventure, ma ossessionati al punto tale da volersi mettere sulle sue orme e costruire altri viaggi e altre avventure eleggendolo a icona, guida, faro.
 
Mettersi allora sulle sue orme per ritrovarlo nelle innumerevoli opere (poemi e liriche, romanzi, quadri e canzoni) che ne ripropongono il mito sezionandolo, reinventandolo, proiettandolo in tempi e luoghi diversi diventa un’altra ossessione ancora. Tutto perché, come scrive Piero Boitani in Sulle orme di Ulisse, uno dei grandi libri che ha dedicato alla scrittura e alle riscritture del personaggio omerico, le vicende di Ulisse sono di fatto entrate nella nostra carne.
 
Non riusciremmo a capire, se fosse altrimenti, le grandi opere della nostra modernità come il Moby Dick di Herman Melville o l’Ulisse di James Joyce o quello sterminato capolavoro di moderno epos che è l’Odissea di Nikos Kazantzakis in cui, tra l’altro, gli epiteti riservati all’eroe sono moltiplicati a dismisura. E non sentiremmo il profondo e ansioso struggimento per quello che ancora non abbiamo letto. Primo fra tutti l’Omeros dell’antillano Derek Walcott. Questo per fare solo pochissimi esempi rimanendo saldamente ancorati in un ambito che riguarda la pagina scritta.
 
Perché se poi spostiamo il nostro campo di ricerca e di interesse l’ossessione si amplifica e ci mette di fronte, per esempio, non solo alle riduzioni cinematografiche e televisive dell’Odissea omerica, ma a vere e proprie ridefinizioni di un mito che si fa occasione per leggere alcune incongruenze della nostra Storia recente. È quello che fa, per esempio, Theo Angelopoulos in Lo sguardo di Ulisse, il grande film del 1995 interpretato da Harvey Keitel e da Gian Maria Volonté, qui alla sua ultima apparizione.
 
Si potrebbe continuare quasi all’infinito nell’andare da una pagina all’altra, da un’immagine all’altra. Attraversare Pascoli e SabaKavafis e PaveseD’Arrigo Borges. E ogni lettore può giocare a metterci dentro tutte le proprie preferenze e le scoperte fatte per caso o per tenace ricerca.
 
Perché questa è la sorte dell’Odisseo omerico: essere il personaggio che consideriamo padre e fratello, amico e nemico, attore e narratore. Lo specchio della nostra anima, a dispetto di quello che il destino ha scritto per ognuno di noi.
 
E visto che in questo oceano di possibilità tutti possiamo trovare l’Ulisse che più ci somiglia, io naufrago sempre con commozione in quegli splendidi versi di Odysseus nei quali, per il tramite di Francesco Guccini, l’eroe ci racconta – e grazie ai quali io racconto a me stesso – “e se guardavo l’isola petrosa/ulivi e armenti sopra a ogni collina/c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa/c’era l’anima mia che è contadina”.

[articolo pubblicato online sul gruppo Facebook Book Advisor, 25 marzo 2021]