È un lettore fortunato quello a cui capita di leggere la biografia di uno scrittore che ama. Fortunato perché sperimenta l’avventura di conoscere questioni e situazioni (fatti emozioni pensieri) che hanno dato senso alla vita e corpo alle pagine di quello scrittore. Il fascino maggiore di questa avventura consiste nel riuscire a individuare, magari in elementi quotidiani di quella esistenza, l’intuizione da cui poi sgorga l’ininterrotto fluire di parole capace di far nascere un capolavoro.
 
Si provi, per esempio, a leggere il bellissimo Alberto Moravia scritto da René de Ceccatty e pubblicato da Bompiani nel 2010. Se ne esce doppiamente innamorati. Per la perizia del biografo e per la ricchezza della vita intellettuale dello scrittore a cui finalmente riusciamo a concedere tutta la vicinanza che merita. Perché, senza l’ambiguo filtro dei romanzi che ci ha regalato, impattiamo nella sua passione di uomo, di scrittore, di lettore. Questo probabilmente è quello che cerchiamo ogni volta che prendiamo tra le mani la biografia di uno scrittore o di una scrittrice: lì dentro ci vogliamo trovare l’uomo o la donna capace di somigliarci in qualcosa. E, poiché siamo lettori, cerchiamo di cogliere in quella vita lo stesso amore per i libri che nutriamo noi.
 
Amore per i libri che nella sostanza significa amore per un racconto capace sempre di svelarci quanto della vita e del mondo ci ha attraversato e quanto, invece, ci è rimasto lontano. Per questo, quando leggiamo che Moravia, grande lettore di Dostoevskij e di Cervantes, di Dickens e di Gogol, di Céline (che non ama) e poi di Saul Bellow, nella scrittura cercava costantemente la definizione di se stesso, ci rendiamo conto di essere nel posto giusto: la scrittura capace di definire se stessi è legata a tutte le letture che di quella definizione sono state la prima, inevitabile, tappa. E le 950 pagine che de Ceccatty gli ha dedicato – tra viaggi, libri, film, incontri, amori, passioni, gelosie – filano via veloci come se fossero una confessione per interposta persona o uno straordinario romanzo d’appendice.
 
E quando, affascinati da quello che Barth David Schwartz scrive su Pier Paolo Pasolini nel suo Pasolini Requiem (La Nave di Teseo, 2020), leggiamo di come lo scrittore si sia improvvisamente trovato tra le mani, da giovane lettore appassionato solo di libri d’avventura, L’idiota Dostoevskij e poi Tolstoj e poi Shakespeare, ecco che anche lì troviamo qualcosa di noi. Del nostro stesso apprendistato di lettori. Senza vivere particolari patemi d’animo nel riconoscerci appassionati di Dumas o di Verne o di Salgari e, al contempo, di sentirci in piena crisi abbandonica se di tanto in tanto non ci rifugiamo nelle pagine di Dostoevskij, Tolstoj, ProustThomas Mann per fare solo alcuni dei nomi che, beninteso, chiunque potrebbe sostituire a proprio piacimento con altri. Perché, come scrive Claudio Magris, in letteratura le dimore sono tante, e non è obbligatorio abitarne una a scapito di un’altra. O negarne una a vantaggio di un’altra.
 
Ogni volta che ci si innamora di uno scrittore si desidera, al limite dell’inopportunità, entrare nella sua vita. Com’era, cosa pensava di sé, ma davvero non era toccato da alcuna miseria che tocca noi? Oppure è un nostro fratello? Tra le pagine della straordinaria Vita di Marcel Proust – scritta da Jean-Ives Tadié e pubblicata in Italia da Mondadori – incrociamo quasi per caso brevi righe in cui si rivela di come il giovane Marcel si rimproverasse la tendenza a procrastinare e la mancanza di volontà.
 
Allora rimaniamo per un attimo pensierosi di fronte a tale stato di insicurezza, sorpresi perché finalmente cadono alcune barriere e sentiamo che sì, nonostante la sua finissima intelligenza e la sua morbida e aristocratica gentilezza che potrebbero anche apparire un tantino snob, Marcel in fondo è uno di noi. E vorremmo soccorrerlo per dirgli che non è possibile, che è assolutamente fuori luogo quell’ingiusto giudizio che trancia su se stesso. Ma come, proprio lui che ha portato a termine con una acribía assoluta quel monumento della volontà che è la Recherche, scritta in infinite notti di insonne sofferenza per mancanza di respiro. Assillato sì, lo era, Marcel. Non però dalla sua acutissima asma. Come scrive la signora Céleste Albaret nel suo delicato e innamoratissimo libro che, molto rispettosamente, reca il semplice titolo di Monsieur Proust, la malattia non lo spaventava: il suo unico timore era di morire prima di aver terminato la sua opera.
 
Ci sono momenti, nella vita di un lettore che ama i suoi scrittori, in cui leggere di queste insicurezze, di questi dubbi, di queste scoperte repentine di grandi autori la cui lettura è capace di riscaldare l’anima, di questo continuo ricercare nella scrittura il senso o il compimento di una vita catturano forse più di un accurato saggio, di una affascinante analisi ermeneutica.
 
Perché è vera anche un’altra cosa. Alla fine un libro parla sempre di altri libri, e quando va veramente bene, la biografia di un grande scrittore parla sempre non solo dei suoi libri, di quelli che ha scritto, ma soprattutto dei Suoi libri. Di quelli che ha amato leggere e che sono diventati patrimonio insostituibile della sua esistenza.
 
In questo andare senza limite – e senza nessuna cornice intorno – da uno scrittore a un altro, da una vita a un’altra, da un libro a un altro, rimane ben impresso l’insegnamento del solito Jorge Luis Borges (e per un arcano motivo, ogni volta che si parla di libri, il suo nome viene sempre, inevitabilmente, fuori): che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso delle pagine che ho letto.
 
Ragione per cui è sempre una gioiosa scoperta leggere qualcosa che ci aiuti a tracciare i margini della vita di uno scrittore che, quasi sempre, non riesce a fare a meno di altre pagine di altri libri scritti da altri. In questo, forse, inconsciamente, ognuno di noi – da lettore – cerca la vita che ha avuto e quella che avrebbe potuto avere.
 
E per arrivare a conciliare con equilibrio ciò che è stato reale con ciò che poteva essere possibile, senza rischiare di precipitare in una confusione schizoide, ci vuole lo struggimento di chi la vita l’ha inseguita ovunque. In un qualunque angolo di via e in una qualunque pagina di libro, prima di buttarsi egli stesso – e a capofitto – nella scrittura.
 
Un’altra lezione rimane indimenticabile e regala una sostanza ancora più densa anche all’affermazione di Borges citata prima. E questa lezione la si ricava dalla interminabile lettera che, scritta da Georges Simenon alla figlia Marie-Jo un paio d’anni dopo il suo suicidio, diventerà Memorie intime.
 
Quell’inesausta voglia di conoscere e di essere tutti e ognuno, non solo se stesso, in definitiva era imparare il mestiere di scrittore. E, in una considerazione a ritroso che Simenon ha fatto negli anni del suo autunno, non è stato altro che seguire l’università della strada e insieme leggere tutti i libri fino a stordirmi.
 
[articolo pubblicato online sul gruppo Facebook Book Advisor, 4 marzo 2021]