Ted Simon. Foto tratta dal web

𝗟𝗲𝗴𝗴𝗲𝗿𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗯𝗶𝗼𝗴𝗿𝗮𝗳𝗶𝗮 che sia capace di percorrere continuamente lo spazio che va dalla vita della persona di cui si racconta al mondo – microcosmo o macrocosmo che sia – e alla Storia che quella vita formano e sostanziano, significa essere lettori fortunati. Sono, questi, libri e storie cha hanno il grande merito di renderci amica una persona e di proiettarci, attraverso gli eventi di cui è stata testimone o attore, nel vasto mondo.

È il percorso ideale di conoscenza che un lettore fa per interposta persona e attraverso le pagine di un libro. Un’esperienza che si spera di ripetere ogni volta che si entra in libreria e si guarda la copertina di un libro, si legge la quarta di copertina, si sfogliano le pagine in cerca di una parola, una frase che siano rivelatrici e che catturino il nostro cuore e la nostra testa invitandoci alla lettura.

Un libro uscito in queste settimane, la sterminata biografia di Benedetto XVI scritta da 𝗣𝗲𝘁𝗲𝗿 𝗦𝗲𝗲𝘄𝗮𝗹d e pubblicata da Garzanti, ne è un esempio mirabile.

In una prospettiva simile ma con una attenzione ben diversa dedicata al senso dell’avventura e dell’amore per la libertà che solo il viaggio riesce a dare e a costruire così una storia di vita e dunque una biografia,, sono i tre libri (I viaggi di JupiterSognando JupiterL’eredità di Jupiter) che 𝗧𝗲𝗱 𝗦𝗶𝗺𝗼𝗻 ha dedicato ai suoi viaggi attraverso il mondo. Amore per la libertà e senso dell’avventura che sorgono improvvisi e quasi inspiegabili a un’età – i quaranta – che già, forse, ha dietro le spalle gli slanci adolescenziali e giovanili. E insieme a quest’idea impellente e improvvisa, il desiderio di raccontarli. On the road di 𝗝𝗮𝗰𝗸 𝗞𝗲𝗿𝗼𝘂𝗮𝗰 ha probabilmente mostrato l’orizzonte, e i libri di 𝗕𝗿𝘂𝗰𝗲 𝗖𝗵𝗮𝘁𝘄𝗶𝗻 ne hanno in qualche modo, nell’immaginario collettivo, raccolto il testimone.Ma nell’avventura di Ted Simon c’è qualcosa che va oltre. Anzi, ci sono un paio di cose che vanno oltre. Ed entrambe portano un carico di fascinazione enorme.

La prima è nel 𝘀𝗼𝗿𝗴𝗲𝗿𝗲 𝗶𝗺𝗽𝗿𝗼𝘃𝘃𝗶𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝘂𝗻’𝗶𝗱𝗲𝗮, fare il giro del mondo, che non è propriamente uguale a farsi venire l’idea di uscire e di andare a fare un giro al parco. È il 1973 e Simon ci fa sapere: l’idea di fare il giro del mondo mi era venuta un giorno del mese di marzo di quell’anno, all’improvviso. Non era stato un pensiero o un desiderio, ma una convinzione vera e propria. Non appena quell’idea mi era balenata in mente, sapevo già che l’avrei fatto, e anche come lo avrei fatto.Bella e curiosa questa idea improvvisa.

Bella, curiosa e intrigante perché vorremmo subito sapere “come” lo avrebbe fatto. Ma un’altra considerazione circola tra questi pensieri avventurosi ed è questa: quando il viaggio inizia, proprio in quello stesso giorno che è sabato 6 ottobre 1973, inizia anche la 𝗚𝘂𝗲𝗿𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗬𝗼𝗺 𝗞𝗶𝗽𝗽𝘂𝗿.

E, caso? destino? necessità? L’itinerario del viaggio di Simon toccherà anche quella fetta di Medio Oriente. Il viaggio sarà dunque non solo in paesaggi carichi di storia passata e di usi e costumi che vengono dal passato, ma anche di lacerazioni e tragedie che toccano il presente e che, per questo, appartengono a tutti noi. A qualunque latitudine ci troviamo a vivere i nostri giorni.

Facile dire, come sempre si dice, che il viaggio è l’esperienza che per detto comune trasforma più di ogni altra cosa. Ma è così e dunque vale sempre la pena di dirlo.

Ma la vera chicca con la quale Ted Simon comincia, nel volume I viaggi di Jupiter, oggi edito in italiano da elliott edizioni, il suo racconto è nel dirci “come” farà quel viaggio.

Sentite: Non saprei dire perché pensai immediatamente a una motocicletta. Non avevo la moto, né la patente per guidarla, eppure mi sembrò ovvio sin dall’inizio che era proprio quello il modo di viaggiare, e che avrei potuto risolvere tutte le difficoltà.

E qui, al di là di ogni problema (Simon prima del viaggio non aveva mai portato una moto, al primo esame di guida è bocciato, non si contano le volte che durante il viaggio cade) quella 𝗳𝗮𝘀𝗰𝗶𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 di cui dicevo prima diventa quasi insostenibile e passa dal viaggio in sé al mezzo. Perché quasi naturalmente si crea quella 𝗺𝗲𝘁𝗮𝗺𝗼𝗿𝗳𝗼𝘀𝗶 che unisce spiritualmente e fisicamente l’uomo al mezzo meccanico, al punto che per parlare di chi va in moto a molti piace usare una parola che viene direttamente dal mito e dalla mitologia. 𝗘 𝗹𝗮 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗮 𝗲̀ 𝗖𝗲𝗻𝘁𝗮𝘂𝗿𝗼.

Io e la Triumph – scrive Simon – ci trovammo bene insieme, sin dall’inizio. Io e la mia Triumph eravamo una sorta di capsula spaziale in grado di viaggiare a oltranza – almeno in due dimensioni – senza dover dipendere da alberghi, negozi, ristoranti, strade in buone condizioni, acqua minerale e pane a fette. Autosufficienza, ecco qual era il mio obiettivo: volevo viaggiare come Livingstone e Cristoforo Colombo.

Del resto è chiaro che se si vuol andare nel mondo da viaggiatori e non da turisti (e fare la differenza non comporta necessariamente esprimere un giudizio di valore, ma segnalarne la fisiologica diversità) bisogna sentirsi liberi, autosufficienti, alieni da bisogni comodamente soddisfatti. Qui il mezzo non c’entra. E ancora una volta Kerouac e Chatwin lo dimostrano.

Ma c’è un ma. E io ancora non trovo parole migliori per sciogliere quel “ma” se non quelle di Ted:Di questi tempi non è difficile fare il giro del mondo: basta sborsare un mucchio di quattrini e puoi girarci attorno in aereo, senza soste, in meno di quarantott’ore. Eppure per conoscerlo, annusarlo e sentirlo sotto le dita dei piedi bisogna strisciare, Non c’è altro modo. Non basta volare, né navigare. Bisogna restare a terra, e inghiottire i moscerini mentre si viaggia: solo così il mondo diventa immenso. Il meglio che si può fare è tracciare una linea lunga e infinitamente sottile nella polvere, e poi estrapolarla.

Qui non c’è niente – o quasi – della ingenua vulgata di sentire il vento nei capelli. C’è però che, come scrive 𝗥𝗼𝗯𝗲𝗿𝘁 𝗣𝗶𝗿𝘀𝗶𝗴 in quell’altro libro denso di fascino che è Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, “in moto la cornice non c’è più”.

Credo che trovi sede qui quella decisione inconscia che ha portato Ted Simon a scegliere di andare in moto e di entrare, senza cornice, nelle strade e nelle vite di chi ha incontrato, nelle guerre e nelle torture che ha attraversato. In questo modo sì, che se pure ha sentito quel leggendario e ingenuo vento nei capelli, ancora più sicuramente ha sentito 𝗶𝗹 𝘀𝗼𝗳𝗳𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮 impregnato di tutto ciò che la impregna.

Mi pare che questo sia stato lo stesso percorso verso la conoscenza del “proprio” vasto mondo che ha messo in sella a una Norton 500 𝗘𝗿𝗻𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗚𝘂𝗲𝘃𝗮𝗿𝗮. Di quest’altro, grande viaggio, rimane come testimonianza Latinoamericana. I diari della motocicletta. E un nome, 𝗣𝗼𝗱𝗲𝗿𝗼𝘀𝗮. Che è il nome con cui quella moto fu battezzata.

[articolo pubblicato online sul gruppo Facebook Book Advisor, 24 dicembre 2020]