
Nel bellissimo I minatori della Maremma – da poco ripubblicato dalle Edizioni minimum fax – Luciano Bianciardi e Carlo Cassola raccontano, partendo da molto lontano, la tragedia del 4 maggio 1954 a Ribolla: in una miniera di lignite, uno scoppio di grisou uccide quarantatré minatori.
È un libro-inchiesta il cui grande valore di denuncia consiste nell’essere capace di assumere un’ottica storica di ampio respiro. Le cause di quella tragedia sono ricondotte non a un volere del fato ma a un’ansia esasperata di profitto che, poiché non nasce e non svanisce il 4 maggio del 1954, viene da lontano e continua a camminare sempre al nostro fianco.
Oltre ai minatori, protagonisti del libro sono i luoghi. La Maremma, l’Amiata, l’Argentario e piccole frazioni o paesi che, per quanto poco conosciuti, hanno anch’essi vissuto le tragedie della Storia: Niccioleta, Gavorrano, Boccheggiano, Ribolla.
Sono tante le cose che si trovano in questo libro straordinario; uomini ed eventi di cui ancora oggi vale la pena parlare: la nascita e lo sviluppo dell’attività mineraria a partire già dalla seconda metà del 1800. Gli inevitabili contrasti tra minatori e padroni. L’attività sindacale, a volte decisa e a volte traballante. L’incertezza della vita e la precarietà dei rapporti sociali, che vanno di pari passo con l’incertezza economica e con lo sfruttamento sul lavoro. Un’umanità nascosta che cerca visibilità.
E poi anche quegli ottantatré minatori fucilati dai nazifascisti il 14 giugno 1944 a Niccioleta.
I minatori della Maremma fa indignare, come ogni grande libro di denuncia. Eppure c’è qualcosa in ogni pagina, in ogni periodo, che affascina e che consola, a dispetto di ciò che racconta. Qualcosa capace persino di dare un sollievo fisico e un senso di leggerezza dell’anima.
Il merito è nella sua prosa limpida e asciutta. Chiara. Nello stile che non concede nulla a frasi o parole che non abbiano l’eleganza che viene dalla conoscenza della lingua italiana. Del suo lessico, della sua grammatica, della sua sintassi.
È una boccata d’ossigeno in quell’apnea ormai quotidiana a cui ci costringe il linguaggio troppo spesso sgrammaticato, sbruffoncello, abborracciato che da un po’ di tempo a questa parte ci gira intorno.
Una lezione di stile. E, tanto per riportare le parole di Lodovico Settembrini, il personaggio dell’immenso romanzo di Thomas Mann La montagna magica (nell’ultima, più recente traduzione mondadoriana a cura di Renata Colorni): la parola è l’onore dell’uomo ed essa soltanto rende la vita degna dell’essere umano. Non solo l’umanesimo […] l’umanità in generale, ogni forma di dignità, il rispetto per gli altri uomini, e l’umano rispetto che ciascun individuo ha di se stesso sono indissolubilmente legati alla parola, alla letteratura […] e così pure le è legata la politica o meglio: quest’ultima scaturisce dall’alleanza, dall’unione di umanità e letteratura, perché la bella parola genera la bella azione.
Dunque non solo scrivere bene, ma anche parlare bene significa pensare bene. Di lì ad agire bene, il passo è breve.