
Ogni volta che il malumore gli afferra l’anima, Ismaele corre a imbarcarsi “per vedere un po’ il mondo delle acque”. In fondo è una scelta sobria, la sua, non certo paragonabile a quella di Catone l’Uticense che, pur vinto, non cede al vincitore e preferisce trafiggersi con una spada.
Eppure c’è qualcosa di eroicamente sacro in questo tranquillo mettersi per mare e andare a caccia di balene. Sarà senz’altro il suo nome di inequivocabile rimando biblico che gli ha incollato addosso una attrazione inevitabile per l’acqua.
Non sapremo mai se dopo la grande avventura contro la Balena Bianca Ismaele avrà dodici figli come il suo omonimo, figlio di Abramo. Ma di sicuro a lui è legato da un destino che comunque conduce all’acqua. Solo che quell’altro Ismaele, il biblico, perduto nel deserto ha la ventura di incontrare un angelo che gli mostra una sorgente d’acqua. E dunque la Vita.
E invece lui, il protagonista dello sterminato romanzo di Herman Melville Moby Dick, è la voce narrante di un destino il cui angelo atterrisce e non salva. E ci lascia in un dubbio che non siamo capaci di sciogliere. Possibile che quel bianco sia il colore di cui si veste il demonio, la morte oceanica che trascina in fondo agli abissi?
Eppure, nonostante per tutto il romanzo aleggi una specie di odore di morte confuso con quello del mare e degli innumerevoli barili ripieni d’olio e di grasso di balena, che conduce inevitabilmente all’incontro con lei, la nostra simpatia va proprio alla Balena Bianca che non smettiamo mai di amare e che vorremmo ancora inseguire, magari per altre mille e mille pagine. E di Ahab, il suo eterno nemico, cosa ci rimane? Quell’ossessivo passo, quell’insopportabile ticchettare della sua gamba d’osso di balena che ci toglie il sonno.
Se dunque il mare è vita, avventura, sete di conoscenza, è anche morte. Lo sapeva bene Odisseo che di mare in mare ha conosciuto uomini e città, e sul mare ha patito molti dolori nel suo cuore. E ha visto la morte di tutti i suoi compagni. Così come Ismaele, secoli dopo, ha visto quella dei suoi compagni balenieri. A nessuno il viaggio per mare ha concesso il ritorno se non a loro due. E lo ha fatto perché potessero raccontare quanto il mare sia splendido e tremendo, tentazione di vita e richiamo di morte.
Chissà quanto consapevolmente Stefano D’Arrigo ha inseguito nel suo immenso Horcynus Orca le suggestioni di Odisseo e il racconto di Ismaele. Fatto sta che il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, ‘Ndria Cambria sul mare tra lo Scilla e Cariddi ricerca la vita dopo la lacerante esperienza della guerra e vi trova una morte solitaria. Anche qui avventura, solitudine, morte. Che inseguono realisticamente e non solo per allegoria chi si arma di coraggio per leggere pagina dopo pagina, riga dopo riga, parola dopo parola questo capolavoro annichilente della letteratura italiana.
Perché proprio annichilisce la sua prosa ondivaga, irritante, avvolgente. E stordisce i sensi quell’odore che segue ‘Ndria Cambria quando giunge al paese delle femminote (“Ma pirdeu, pirdeu, tu non la senti la puzza che sventa?”) E irrita lo sbattimento, il rimbombo della stampella di Boccadopa.
Sarà forse lui l’Ahab mediterraneo? No che non lo è. Perché il destino di morte qui insegue l’elegante pescespada e ‘Ndria, che non cercano vendetta sul mare come invece fa il capitano Ahab.
E poi per il protagonista questa è un’Odissea rettilinea, senza ritorno. Un’odissea che va verso il nulla o verso l’infinito. Esperienze che possono, entrambe, dare l’immagine della morte. In questo Horcynus Orca è davvero uno dei grandi romanzi della contemporaneità. E riesce come pochi a condurre a unità quelle che sono – suggerisce Claudio Magris nel suo bellissimo Utopia e disincanto – le due odissee possibili nell’età contemporanea: l’odissea come viaggio circolare che prevede il ritorno e quella appunto rettilinea, che procede verso l’infinito o verso il nulla.
Ed è proprio Magris che ha scritto Un altro mare, uno dei romanzi più struggenti che al mare va e dal mare ritorna. Il romanzo sulla vita di Enrico Mreule che con una cassa piena di classici greci e latini, di libri di Schopenhauer e di una citara attraversa l’oceano – l’altro mare così lontano dal suo Adriatico – e se ne va in Argentina a fare il gaucho. Perché il vero destino che Enrico insegue è togliere e gettare via da sé l’inessenziale.
Tutto ciò che vuole è scomparire agli occhi del mondo e isolarsi dalle maree della Storia. E ci riesce così bene che quando viene pubblicata una edizione critica delle opere del filosofo Carlo Michelstaedter, suo grande amico degli anni e degli studi giovanili, “l’amico che doveva empirmi tutto lo spazio ed essermi il mondo”, viene dato per morto nel 1933. E invece si spegne il 5 dicembre del 1959. Ma alla fine che importa. I ventisei anni trascorsi tra la morte fittizia e quella vera sono nulla. Perché persino il tempo della vita non conta per chi sul mare ha cercato la propria anima.
[articolo pubblicato online sul gruppo Facebook Book Advisor, 4 febbraio 2021]